domenica 31 maggio 2015

PROVATE A NON COMMUOVERVI


giovedì 21 maggio 2015

IL CONTINUUM

Jean Liedloff, psicoteraupeta nata e vissuta a New York, intorno agli anni sessanta ha avuto l’occasione di condividere parte del suo tempo con popolazioni dell’“età della pietra”; è convivendo, in particolare con le tribù indios degli Yequana, che ha elaborato e reso noto il rispetto per le esigenze legate al continuum di ogni individuo.
Per continuum si intendono quelle aspettative insite in ciascun neonato che, se assecondate, permettono lo sviluppo di una personalità completa, serena e appagata. Le osservazioni sul vissuto degli Yequana, il loro profondo rispetto per le individualità di ciascuno, siano essi adulti o bambini, ed il loro benessere quotidiano, ha portato la Liedloff a comparare il loro modo di vivere con il nostro mondo civilizzato e ad individuare nel loro modo di rapportarsi col bambino, il miglior modello possibile da seguire.
La Liedloff, nel suo libro “Il concetto del continuum”, non ci propone un ritorno all’età della pietra, bensì, una riflessione sul nostro mondo civilizzato affinché vengano riscoperte ed accettate le modalità idonee a soddisfare le aspettative innate, previste dall’evoluzione, in quanto ella ha individuato in questa mancanza il motivo per cui tra gli Yequana esiste qualcosa che è molto raro nel nostro stile di vita: la vera gioia.
Il nostro mondo civilizzato, infatti, priva il neonato delle esperienze previste dal continuum che si rivelano necessarie affinché si sviluppi in modo completo il suo potenziale innato; la conseguenza di questa deprivazione persisterà indiscriminatamente come parte del suo sviluppo a discapito della sensazione di armonia prevista dalla natura. Spesso, infatti, queste traumatiche privazioni infantili costituiscono le premesse per la formazione di individui ansiosi, sradicati, aggressivi.
Dunque, quali sono le aspettative del continuum che si sono palesate alla Liedloff nella convivenza con questo popolo così vicino al nostro modo di essere secondo natura?
Innanzitutto il bambino alla nascita esige contatto fisico: la fase in braccio è, infatti, la prima aspettativa del bambino. I nostri antenati camminavano su tutte e quattro le zampe e i bambini si aggrappavano, per sopravvivere, ai peli della madre. Nel momento in cui ci siamo rizzati sulle gambe posteriori liberando così le mani della madre, è toccato a lei mantenere questo contatto. Per milioni di anni i bambini appena nati sono stati tenuti vicini alle loro madri sin dal momento della nascita. Il fatto che ad un certo punto si sia deciso di credere che mantenere questo contatto fosse facoltativo non cambia minimamente la pressante necessità del bambino di essere abbracciato.
Nel mondo civilizzato veniamo privati di quasi tutta l’esperienza in braccio e di gran parte di quella successivamente prevista.
Sin dalla nascita veniamo disgiunti dal nostro continuum umano. La separazione dal corpo materno è una pratica diffusa in molti ospedali moderni e, una volta a casa, la madre, nella convinzione culturale che il pianto del bambino sia qualcosa da combattere e non, come è in realtà, un campanello di allarme che vuole chiamare l’unica fonte di rassicurazione di cui necessita, prosegue, grazie all’ausilio di carrozzine, culle e box a tenere separato il bambino. E’ così che il desiderio dell’esperienza in braccio accompagna tutto l’arco dello sviluppo della mente e del corpo in attesa di essere appagato e si creano le premesse per uno sviluppo di personalità incomplete, sempre alla ricerca di qualcosa.
L’opinione diffusa è che portare il bambino in braccio gli impedisca di diventare indipendente e di acquisire fiducia in sé. Tuttavia, l’autrice del libro sovverte questa convinzione, portando l’esempio dei bambini Yequana, i quali, dopo aver trascorso i primi sei otto mesi in braccio, quando iniziano a gattonare e poi a camminare, si allontanano progressivamente dalla madre, della quale richiedono il conforto del contatto fisico solo in casi di emergenza. La madre, offrendo una guida minima indispensabile, fornisce al suo bambino la giusta dose di sicurezza per esplorare l’ambiente circostante; il suo ruolo è semplicemente quello di essere disponibile quando egli si rivolge a lei o quando la invoca.
Le aspettative del bambino sono le medesime che ebbero i suoi antenati e, dunque, egli si aspetta lo spazio e la libertà di potersi muovere in esso; nella fase di gattonamento egli ha sete di esperienze pertanto si concentra sempre meno sul tipo di circostanze e trattamento. Inoltre dimostra di avere tendenze verso gli esperimenti e la prudenza, infatti, generalmente le sue prime spedizioni sono brevi e prudenti e non c’è quasi bisogno che sua madre o chi o accudisce gli dia una mano nelle sue attività.
La donna Yequana non impone la sua volontà sul figlio, non dirige la sua attività né lo difende dai pericoli da cui sa che può guardarsi da solo.
Un’altra caratteristica del continuum, infatti, è far sì che il bambino, come tutti i cuccioli di animali, abbia un acuto senso di autoconservazione e una coscienza realistica delle proprie capacità. Il popolo Yequana, conoscendo le grandi doti di autodifesa dei loro bambini, permettono loro di giocare intorno a corsi d’acqua, senza impedimenti, così come di utilizzare liberamente coltelli affilati e tizzoni ardenti. Eppure, quanto constata la Liedloff è che ci sono molti più incidenti tra i bambini ultra protetti del mondo civilizzato piuttosto che tra gli Yequana dove i pericoli offerti dall’ambiente sono sicuramente maggiori. Le madri hanno fiducia nel bambino e non troncano le sue iniziative, contrariamente alle madri del mondo civilizzato, poiché confidano nella capacità di auto-protezione. Questa assunzione di responsabilità è un elemento che rientra nelle aspettative di ognuno, tuttavia, avere fiducia è uno dei problemi più spinosi per chiunque desideri applicare i principi del continuum nella vita “civilizzata”.
Il bambino, per il popolo Yequana, è qualcosa di positivo, sotto tutti gli aspetti, pertanto, tra essi non esiste il concetto di “bambino cattivo o bravo”. Si parte dal presupposto che le motivazioni di un bambino siano sociali e non antisociali, pertanto, ciò che fa viene accettato come un atto di una creatura innatamente “giusta”. Questo presupposto di positività, o antisocialità, in quanto caratteristica intrinseca della natura umana, è l’essenza dell’atteggiamento degli Yequana verso gli altri, di qualunque età essi siano.

Jean Liedloff, psicoteraupeta nata e vissuta a New York, intorno agli anni sessanta ha avuto l’occasione di condividere parte del suo tempo con popolazioni dell’“età della pietra”; è convivendo, in particolare con le tribù indios degli Yequana, che ha elaborato e reso noto il rispetto per le esigenze legate al continuum di ogni individuo.
Per continuum si intendono quelle aspettative insite in ciascun neonato che, se assecondate, permettono lo sviluppo di una personalità completa, serena e appagata. Le osservazioni sul vissuto degli Yequana, il loro profondo rispetto per le individualità di ciascuno, siano essi adulti o bambini, ed il loro benessere quotidiano, ha portato la Liedloff a comparare il loro modo di vivere con il nostro mondo civilizzato e ad individuare nel loro modo di rapportarsi col bambino, il miglior modello possibile da seguire.

Jean Liedloff e la tribù degli Yequana
La Liedloff, nel suo libro “Il concetto del continuum”, non ci propone un ritorno all’età della pietra, bensì, una riflessione sul nostro mondo civilizzato affinché vengano riscoperte ed accettate le modalità idonee a soddisfare le aspettative innate, previste dall’evoluzione, in quanto ella ha individuato in questa mancanza il motivo per cui tra gli Yequana esiste qualcosa che è molto raro nel nostro stile di vita: la vera gioia.
Il nostro mondo civilizzato, infatti, priva il neonato delle esperienze previste dal continuum che si rivelano necessarie affinché si sviluppi in modo completo il suo potenziale innato; la conseguenza di questa deprivazione persisterà indiscriminatamente come parte del suo sviluppo a discapito della sensazione di armonia prevista dalla natura. Spesso, infatti, queste traumatiche privazioni infantili costituiscono le premesse per la formazione di individui ansiosi, sradicati, aggressivi.
Dunque, quali sono le aspettative del continuum che si sono palesate alla Liedloff nella convivenza con questo popolo così vicino al nostro modo di essere secondo natura?

Innanzitutto il bambino alla nascita esige contatto fisico: la fase in braccio è, infatti, la prima aspettativa del bambino. I nostri antenati camminavano su tutte e quattro le zampe e i bambini si aggrappavano, per sopravvivere, ai peli della madre. Nel momento in cui ci siamo rizzati sulle gambe posteriori liberando così le mani della madre, è toccato a lei mantenere questo contatto. Per milioni di anni i bambini appena nati sono stati tenuti vicini alle loro madri sin dal momento della nascita. Il fatto che ad un certo punto si sia deciso di credere che mantenere questo contatto fosse facoltativo non cambia minimamente la pressante necessità del bambino di essere abbracciato.
Nel mondo civilizzato veniamo privati di quasi tutta l’esperienza in braccio e di gran parte di quella successivamente prevista.
Sin dalla nascita veniamo disgiunti dal nostro continuum umano. La separazione dal corpo materno è una pratica diffusa in molti ospedali moderni e, una volta a casa, la madre, nella convinzione culturale che il pianto del bambino sia qualcosa da combattere e non, come è in realtà, un campanello di allarme che vuole chiamare l’unica fonte di rassicurazione di cui necessita, prosegue, grazie all’ausilio di carrozzine, culle e box a tenere separato il bambino. E’ così che il desiderio dell’esperienza in braccio accompagna tutto l’arco dello sviluppo della mente e del corpo in attesa di essere appagato e si creano le premesse per uno sviluppo di personalità incomplete, sempre alla ricerca di qualcosa.

L’opinione diffusa è che portare il bambino in braccio gli impedisca di diventare indipendente e di acquisire fiducia in sé. Tuttavia, l’autrice del libro sovverte questa convinzione, portando l’ esempio dei bambini Yequana, i quali, dopo aver trascorso i primi sei otto mesi in braccio, quando iniziano a gattonare e poi a camminare, si allontanano progressivamente dalla madre, della quale richiedono il conforto del contatto fisico solo in casi di emergenza. La madre, offrendo una guida minima indispensabile, fornisce al suo bambino la giusta dose di sicurezza per esplorare l’ambiente circostante; il suo ruolo è semplicemente quello di essere disponibile quando egli si rivolge a lei o quando la invoca.
Le aspettative del bambino sono le medesime che ebbero i suoi antenati e, dunque, egli si aspetta lo spazio e la libertà di potersi muovere in esso; nella fase di gattonamento egli ha sete di esperienze pertanto si concentra sempre meno sul tipo di circostanze e trattamento. Inoltre dimostra di avere tendenze verso gli esperimenti e la prudenza, infatti, generalmente le sue prime spedizioni sono brevi e prudenti e non c’è quasi bisogno che sua madre o chi o accudisce gli dia una mano nelle sue attività.
La donna Yequana non impone la sua volontà sul figlio, non dirige la sua attività né lo difende dai pericoli da cui sa che può guardarsi da solo.

Un’altra caratteristica del continuum, infatti, è far sì che il bambino, come tutti i cuccioli di animali, abbia un acuto senso di autoconservazione e una coscienza realistica delle proprie capacità. Il popolo Yequana, conoscendo le grandi doti di autodifesa dei loro bambini, permettono loro di giocare intorno a corsi d’acqua, senza impedimenti, così come di utilizzare liberamente coltelli affilati e tizzoni ardenti. Eppure, quanto constata la Liedloff è che ci sono molti più incidenti tra i bambini ultra protetti del mondo civilizzato piuttosto che tra gli Yequana dove i pericoli offerti dall’ambiente sono sicuramente maggiori. Le madri hanno fiducia nel bambino e non troncano le sue iniziative, contrariamente alle madri del mondo civilizzato, poiché confidano nella capacità di auto-protezione. Questa assunzione di responsabilità è un elemento che rientra nelle aspettative di ognuno, tuttavia, avere fiducia è uno dei problemi più spinosi per chiunque desideri applicare i principi del continuum nella vita “civilizzata”.
Il bambino, per il popolo Yequana, è qualcosa di positivo, sotto tutti gli aspetti, pertanto, tra essi non esiste il concetto di “bambino cattivo o bravo”. Si parte dal presupposto che le motivazioni di un bambino siano sociali e non antisociali, pertanto, ciò che fa viene accettato come un atto di una creatura innatamente “giusta”. Questo presupposto di positività, o antisocialità, in quanto caratteristica intrinseca della natura umana, è l’essenza dell’atteggiamento degli Yequana verso gli altri, di qualunque età essi siano.

Il presupporre una socialità innata è in diretto contrasto con la cultura del mondo civilizzato che tende ad intervenire sulle scelte di comportamento per fare del bambino un individuo sociale, allontanandolo dal suo percorso naturale.
Così come previsto dal continuum, l’atteggiamento tipico degli Yequana, siano essi adulti o bambini consiste nel non persuadere gli altri. La volontà del bambino è il suo organo motore, pertanto non c’è alcuna imposizione da parte degli adulti: come giocare, quanto mangiare, quando dormire, e così via, sono scelte che spettano al bambino. Lasciare al bambino la scelta sin da tenera età permette di ottenere la massima efficienza del suo spirito critico, sia nel delegare sia nel prendere decisioni.
Dunque, il concetto del continuum su cui la Liedloff ha posto l’accento consiste nel far sì che il bambino si sviluppi secondo quanto previsto dall’evoluzione, pertanto, le esperienze di cui, istintivamente, necessita il bambino passano da una ricca esperienza “in braccio” ad una prudente e, via via, sempre maggiore esplorazione dell’ambiente che gli consentono di acquisire fiducia nelle proprie capacità e benessere personale, grazie al soddisfacimento delle sue aspettative innate. 

Valeria Montuori

LA STORIA DI UNA DONNA AFRICANA CHE VIVE NEL REGNO UNITO



Sono nata e cresciuta in Kenya e Costa d’Avorio e dall’età di 15 anni ho vissuto nel Regno Unito. Tuttavia, ho sempre saputo che volevo crescere i miei figli (quando li avrei avuti) a casa in Kenya. Si ero certa che ne avrei avuti.
Sono una moderna donna africana, con due lauree, faccio parte della generazione di donne che lavora, ma quando si tratta di bambini, sono tipicamente africana.
Il presupposto rimane che non si è completi senza di loro, i bambini sono una benedizione che sarebbe folle evitarli. In realtà la questione non si pone neppure. Ho iniziato la mia gravidanza nel Regno Unito. La voglia di tornare a casa era così forte che ho venduto la mia licenza, ho impostato una nuova attività e cambiato casa e paese entro i primi cinque mesi di gravidanza.
Ho fatto quello che la maggioranza delle donne nel Regno Unito fanno, ho letto voracemente: i nostri bambini, noi stessi, Unconditional Parenting e l’elenco potrebbe continuare. (Mia nonna ha poi commentato che i bambini non leggono libri e davvero tutto quello che dovevo fare era “leggere” il mio bambino).
Tutto quello che ho letto, spiegava che i bambini africani piangevano meno dei bambini europei. Ero incuriosito sul perché. Quando sono tornata a casa ho osservato. Ho guardato e madri e bambini erano ovunque, anche se molte giovani africane, prima delle sei settimane del neonato stanno principalmente a casa. La prima cosa che ho notato è che, nonostante la loro ubiquità, in realtà era abbastanza difficile “vedere” un bambino keniota.
Di solito sono incredibilmente ben avvolti prima di essere trasportati o legati sulle loro madri (a volte sul padre). Anche i bambini più grandi che vengono portati sulla schiena vengono ulteriormente protetti dalle intemperie da una grande coperta. Saresti fortunato a scorgere un arto, figuriamoci un occhio o il naso. La protezione è una replica come dell'”utero”. I bambini sono letteralmente protetti dallo stress del mondo esterno in cui stanno entrando.
La mia seconda osservazione invece fu di tipo culturale.
Nel Regno Unito, si è capito che i bambini piangono. In Kenya, è tutto il contrario. La normalità è che i bambini non piangono. Se lo fanno, qualcosa è terribilmente sbagliato e deve essere corretto immediatamente. Mia cognata inglese ha riassunto bene la situazione: “La gente qui, in realtà non ama i bambini che piangono, vero?”
Tutto ha preso molto più senso quando finalmente mia nonna è venuta a trovarmi. Come è normale, il mio bambino ha pianto per una discreta quantità di tempo. Esasperata e stanca, ho dimenticato tutto quello che avevo letto e, a volte mi sono unita al pianto. Eppure, per mia nonna era semplice: “Nyonyo (allattalo)!“.

lunedì 4 maggio 2015

SCEGLIETE L'AMORE

È stato amore a prima vista...o quasi. La prima volta che ho visto mia moglie, ho sentito qualcosa di indescrivibile. Avevo 17 anni e lavoravo da Burger King. Lei ne aveva 19 ed era la manager del ristorante.
Voleva mostrare ai dipendenti che il capo era lei, molti impiegati non la sopportavano neanche. All'inizio eravamo solo colleghi, poi siamo diventati amici. Il nostro legame si è trasformato in qualcosa di più e dopo sei mesi ci siamo sposati.
La percentuale di matrimoni felici non è molto alta e il numero diventa preoccupante quando ci si sposa giovani. Noi ci siamo sposati il giorno dopo il mio diciottesimo compleanno, senza sapere quanto sarebbe stata dura.
Nonostante gli avvertimenti di famigliari e amici sui rischi di sposarsi troppo presto, non cambiammo idea. Eravamo follemente innamorati e pronti ad affrontare il mondo insieme. I primi anni sono andati bene. A volte litigavamo, ma niente di serio. A 19 anni ho fondato una società di servizi e ho raggiunto un reddito a sei cifre in un anno.
Tuttavia, non sapevo nulla di business ed ho gestito male i miei affari. Nell'aprile del 2011 avevamo 180.000 dollari di debiti e litigavamo di continuo per questioni di soldi. Dopo aver litigato costantemente per quasi un anno, abbiamo deciso che era ora di separarci e mettere fine al nostro matrimonio. Ritorno spesso a quella conversazione e mi vengono sempre le lacrime agli occhi.
Il giorno dopo la separazione è stato uno dei più brutti della mia vita. Svegliarsi a casa di un amico, senza vederla dormire accanto a me, è stato tremendo. Ho pianto, ho urlato, ho pensato anche al suicidio. Credevo che la mia vita fosse finita e che i miei figli mi avrebbero visto come io avevo visto mio padre dopo la separazione dei miei. Mi veniva da vomitare al pensiero di un altro accanto a lei.
Ma c'è speranza.

Quell'anno è stato duro. Ai nostri problemi si univano quelli finanziari ed ero in sovrappeso di circa 80 chili.
Il giorno seguente, dopo aver pianto disperatamente, ero determinato a cambiare vita. Non m'importava a quale condizione, volevo fare di tutto per avere una vita senza rimpianti. Così ho messo le scarpe da ginnastica e sono andato a correre. Anche se mi sentivo come se stesse per venirmi un infarto, ero deciso. Ho eliminato il cibo nocivo e ho iniziato una dieta sana. A volte provavo a chiamare mia moglie per dirle che l'amavo, ma rispondeva sempre la segreteria.
Mi svegliavo ogni giorno con la convinzione di migliorare. Il cambiamento mi è costato molti giorni e molte lacrime. In quel periodo io e mia moglie abbiamo ricominciato a parlarci, poi a vederci e ci siamo conosciuti nuovamente.
Il giorno prima della sentenza di divorzio doveva essere l'epilogo, con l'udienza in tribunale e la chiusura del caso. Abbiamo preferito l'amore al nostro passato. Ad oggi, siamo sposati da 16 stupendi e difficili anni. Ma ci siamo guadagnati questo matrimonio.
L'amore è una decisione.
Innamorarsi è facile. Quando provi certe cose, sei così felice da non vedere più nulla. Ma, finita la luna di miele, la realtà inizia a farsi avanti. Questo è il punto, sei tu a decidere che realtà vuoi. Un consulente molto saggio ci disse che l'amore non è un sentimento, ma una decisione. Si decide di amare e di restare innamorati.
I sentimenti sono mutevoli, ma quando decidi ogni giorno di rispettare la promessa, stai scegliendo l'amore. Quando pensi che preferiresti morire piuttosto che tradire la persona che hai accanto, stai decidendo di amare.
Ci sarà sempre un'altra persona attraente a tentarci. L'erba del vicino sembrerà sempre più verde, soprattutto nei momenti più difficili, ma il vero amore non conosce le tentazioni. Se siete separati, mi auguro che continuiate a sperare. Se qualcun altro vi ha sedotto, spero abbiate scelto l'amore e non l'attrazione fisica. Se la vostra vita insieme è appena iniziata, scegliete di amarvi in ogni singolo minuto che vi è stato concesso.
La vita è breve e il tempo è l'unica cosa che non potremo mai riavere. Potete arrivare alla fine dei vostri giorni rimpiangendo l'amore oppure felici delle vostre decisioni. 
Scegliete l'amore.

http://www.huffingtonpost.it/kimanzi-constable/il-giorno-dopo-la-separazione-da-mia-moglie_b_6869248.html?ref=fbpr